giovedì 17 maggio 2012

ROMAGNA MIA: RONCHI DI CASTELLUCIO, VERTICALI EMOZIONI

Scritto da: Gabriele Succi martedì 15 maggio 2012

Nell’immaginario collettivo la Romagna è sinonimo di distese infinite di ombrelloni, piadine, discoteche, vitelloni e sballo. Molti però ignorano che la parte più caratteristica, verace, meno appariscente, è l’entroterra con i suoi bellissimi borghi collinari circondati da vigne e olivi. Il noto regista e produttore cinematografico Gian Vittorio Baldi, lughese di nascita, nel 1974 di ritorno da Roma, rimase rapito da quei paesaggi e fondò il “Castelluccio”, nelle colline fra Brisighella e Modigliana, a cavallo fra le province di Forlì e di Ravenna. L’azienda si trova ad un’altitudine che va dai 250 ai 500 m. slm, con terreni formati da uno strato compatto di marna e calcare dove furono individuate microzone particolari tra macchia e calanchi, adatte alla produzione di uve di altissimo livello qualitativo; queste zone da noi in Romagna sono definite i “Ronchi”, così chiamati perché non erano altro che pezzi di terra strappati al bosco con la roncola. Le tendenze enologiche anni ’90 erano ben lontane dal condizionare il mondo vinicolo italiano e Gian Vittorio Baldi, con l’aiuto di Gino Veronelli e dell’agronomo Remigio Bordini, capì che il legame tra il Sangiovese e i terreni che avevano a disposizione era e sarebbe stato indissolubile.





Allora il progetto fu considerato visionario, “qvel l’è màtt” dicevano i contadini del luogo. Baldi (presente alla serata insieme al figlio Gian Matteo, oggi direttore generale della Bertani) ci ha raccontato del perché iniziò la sua avventura: non capiva come mai nei ristoranti italiani non ci fossero vini della Romagna in carta, e sugli scaffali delle enoteche.  A posteriori la risposta è facile: si pensava a produrre tanto senza badare alla qualità del prodotto finale, cosa che nella maggioranza dei casi avviene anche oggi. Ecco perché lo consideravano “matto” e il suo estro, sommato alla grande determinazione, lo portarono anche ad essere tra i primi in Italia a mettere in pratica il concetto di cru (in questo caso in riferimento al singolo ronco), appreso quando andò a far visita, tanto per essere sicuro di non sbagliare, alle aziende Chateau Haut Brion e Chateau d’Yquem.
La zonazione lo portò a piantare selezioni clonali diverse di Sangiovese a seconda dell’esposizione e del terreno, in modo da ottenere prodotti unici e distinguibili. Gian Matteo Baldi ci ha confessato che le selezioni scelte da loro erano quelle che a Tebàno (la sezione distaccata della facoltà di agraria dell’Università di Bologna, dove c’era appunto il Dott. Bordini) nessuno si sognava più di piantare perché poco produttive; una di queste selezioni (il biotipo SG 19, quello del Ronco della Simia) è tuttora piantato dagli agricoltori romagnoli e toscani ed è probabilmente una di quelle che offre i migliori risultati qualitativi.
Se le orme dei Baldi fossero state seguite da tutti in Romagna, avremmo oggi una delle migliori zone produttive e rinomate in Italia. Purtroppo, al contrario, a torto o a ragione, è invece considerata il terzo mondo dell’enologia e il termine ronco è ormai per i più sinonimo di vino in cartone (e l’esclamazione “tòt i dè!” nasce spontanea). Sono però un inguaribile ottimista e sono convinto che sotto le ceneri le braci ardano ancora. Prima o poi, i semi piantati nella “terra buona” riusciranno a germogliare e i prodotti di allora ritorneranno in queste terre, richiamando l’attenzione dei consumatori.
Oggi molti ottimi produttori cercano di raggiungere alti livelli qualitativi, alcuni ci riescono ma non c’è ancora uno stile comune, un filo conduttore che faccia capire agli appassionati il territorio: servono vini veri a base di Sangiovese, possibilmente in purezza per evitare l’ omologazione di cui soffrono molti vini della mia terra, dei miei colleghi. Un’ultimissima cosa: tanto per far contenti i tifosi del bio a tutti i costi, ricordo che Castelluccio fu tra gli antesignani – senza ovviamente sbandierarlo ai quattro venti come succede oggi – con concimazioni solo con letame (2/3 di vacca e 1/3 di pecora), in vigna solo rame e zolfo, uso di lieviti indigeni. Insomma cose semplici che oggi sono considerate virtù ma che allora erano la normalità. Ecco i vini bianci in degustazione.
Ronco del re ’81: Sauvignon blanc; colore giallo paglierino appena carico, alla vista sembra più un 2006 che non un ’81. Naso che apre con note di pera sottospirito che poi evolvono in un floreale di mimosa e poi in miele d’acacia. Bocca freschissima grazie ad una acidità veramente alta e con un finale agrumato, di una persistenza infinita. Per questo vino il tempo non è passato. Fu prodotto originariamente in non tantissimi ettolitri; ma dato che non piacque, venne dato agli operai dell’azienda, prima di essere imbottigliato. Rimasero due damigiane da 54 litri che furono poi imbottigliate. Un vino culto, da non credere. Il miglior bianco italico e non che abbia mai bevuto in vita mia. 98/100
Ronco del re ’90: colore giallo più carico del precedente. Al naso apre con un leggero sentore di zolfo a coprire il floreale, che viene comunque fuori ad aspettare con fiori di camomilla e miele. Bocca complessa con nespola in evidenza e un finale di caramello. L’acidità più bassa rende la beva appena più difficile per la minor freschezza. Soffre la presenza del fratello maggiore. 91/100
Questi invece i rossi, tutti 100% Sangiovese.

Ronco delle ginestre ’82: colore rosso rubino intenso e brillante, senza cedimenti. Naso di pelle conciata al cromo, poi menta, menta e ancora menta. La freschezza è impressionante, vino che sembra di almeno 10 anni più giovane, ci sono note di tabacco e rabarbaro e balsamiche sul finale. Alla cieca sarebbe stato facile confonderselo con un Biondi Santi. 94/100
Ronco delle ginestre ’86: colore rosso più scarico e granato del precedente. Appena versato si sente una netta riduzione con odore di tombino, che però scompare nell’arco di neanche un minuto per aprirsi sempre in note mentolate (meno evidenti rispetto al ginestre ’82) poi agrumate ed infine in fiori macerati; veramente complesso. Anche qui acidità altissima, tagliente, che mantiene la beva vivissima grazie anche all’evidente frutto agrumato presentissimo. Anche questo è un Sangiovese di gran classe. 95/100
Ronco delle ginestre ’88: questo vino a mio avviso è stato contaminato dal tappo difettoso. Apre con una piccola muffetta (non TCA netto, ma quasi) e con glutammato. Bocca evoluta, dove ritorna quella che a mio avviso è la contaminazione del tappo. Peccato. N.G.
Ronco dei ciliegi ’81: colore come il ginestre ’86. Olfatto che offre in apertura un thè nero indiano persistente che ritorna anche in bocca accompagnato da un’acidità vibrante e tannini ancora leggermente aggressivi che farebbero pensare ad un vino del ’90 o dopo ancora. Finale incredibile. 93/100
Ronco dei ciliegi ’82: per me la vera sorpresa della serata. Parte muto, chiuso, ma poi si apre in note torbate e poi iodate; bocca monumentale, assurda per un vino del 1982. Un frutto macerato in mezzo ad un mare di tannini compatti ma levigati fusi in un’acidità da far spavento. Pazzesco, in prospettiva potrebbe durare ancora altri decenni. 97/100
Ronco del casone ’80: colore scurissimo violaceo (!) sembrerebbe a prima vista un vino fatto da uve a base montepulciano o lambrusco grasparossa; irreale. Qui però la prima delusione, naso evoluto da Porto che ritorna anche nel prospetto gustativo. Non andato, ma veramente troppo evoluto; si potrebbe pensare ad una cattiva conservazione. Oppure andava bevuto prima. 83/100
Ronco del casone ’81: qui il colore è nettamente più scarico (anche perché sarebbe veramente stato impossibile fare di più). Olfatto anche qua con nespola che rimane in bocca assieme a tannini di una finezza setosa, quasi borgognona, anzi il più borgognone dei vini della serata; sfido chiunque alla cieca a scambiarlo per un Sangiovese. 93/100
Ronco del casone ’86: Colore rosso rubino brillante, l’acidità volatile che è effettivamente sopra le righe copre tutto lo spettro olfattivo e purtroppo ritorna anche al gusto, anche se poi il finale agrumato va a raddrizzare la situazione, assieme ad un tannino perfettamente integro. Per inciso la volatile è sparita la sera successiva, e il naso è andato ad avvicinarsi ad un frutto chiaro leggermente maturo. La sera della degustazione ho scritto 84/100; il giorno dopo 87/100. Non all’altezza però dei migliori della serata.
Ronco del casone ’87: Seconda sorpresa della serata. All’olfatto è ancora presentissima una ciliegia rossa perfettamente integra, anzi ancora si avvertono note quasi fermentative, pazzesco! Il frutto rosso quasi macerato ritorna anche per la via gustativa con un tannino in progressione che domina sull’allungo finale; il tutto accompagnato dalla freschezza che è evidente ormai essere il marchio di fabbrica della gestione di allora. 96/100
Ronco della simia ’90: uno dei tre vini che chiederei di bere nel caso fossi condannato a morte. Colore di tonalità scurissima, compatto; con unghia appena aranciata. Subito il naso è monolitico, indice già dell’imponente struttura del vino; poi evolve in frutta rossa e nera macerata e poi in liquirizia, poi ancora cioccolata e mallo di noce. Bocca assoluta, struttura alla Chateau Latour; la potenza di Mike Tyson con l’eleganza di Sugar Ray Leonard. Poi ancora frutta nera, liquirizia e alla fine anche il catrame. Il tutto sorretto da una quantità di tannini enorme che non asciugano ma anzi allungano il finale. Che dire? 97/100 pieni, ma in prospettiva… chissà?
Peccato per chi non abbia mai bevuto una cosa simile. Nella mia vita è la seconda volta, posso dire di essere stato fortunato. Riassaggiato dopo un’ora, all’olfatto si è richiuso, come a dire: “avete intravisto chi sono…poi vi farò vedere sul serio chi diventerò”. Chi sarà il fortunato a riberlo? Per inciso, al termine della serata, si è bevuto un vino che è considerato lo “Chateau d’Yquem italiano” annata 1996, di un’altra grande azienda romagnola. Ma questa è un’altra storia.


             


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