BRISIGHELLA. La Pieve di San Giovanni
in Ottavo, o Pieve del Thò come viene comunemente chiamata, è una delle pievi
romaniche più suggestive e meglio conservate del territorio ravennate. A
partire da sabato 14 giugno 2014 la cripta della pieve e alcuni vani adiacenti,
scoperti e indagati a più riprese nel secolo scorso, saranno finalmente aperti
al pubblico che avrà così a disposizione un percorso di visita corredato da
pannelli per scoprire la storia e le curiosità di questo straordinario
monumento. La Pieve di San Giovanni in Ottavo deve il nome al fatto di sorgere
all’ottavo miglio della Via Faventina (oggi Faentina), l’antica strada romana
che da Faenza
giungeva a Fiesole, lungo la Valle del Lamone. Già menzionata in una pergamena
del 909, ha subìto varie modifiche anche se l’impianto principale resta quello
della fine dell’XI secolo, come attesta un’iscrizione su un capitello recante
la data 1100.
La cripta scoperta sotto
il presbiterio durante i restauri condotti negli anni ’30, risale alla fase
edilizia più antica della pieve. Durante gli ampliamenti del XVI secolo era
stata occultata e riempita dei materiali più eterogenei tra cui frammenti di
plutei decorati, parte di un ambone e pilastrini. Svuotata tra il 1950 e il
1960, ha restituito reperti ceramici e lapidei di età romana e medievale oltre
a resti archeologici (tratti di murature, una fornace per campane, una tomba
alla cappuccina, anfore da trasporto, ceramiche da mensa e alcuni dolia)
riferibili sia alla pieve che a una precedente fase di occupazione in epoca
romana. Dopo gli ultimi lavori di consolidamento e restauro del complesso
effettuati tra gli anni ‘90 e il Duemila, le Soprintendenze per i Beni
Archeologici dell’Emilia-Romagna e per i Beni Architettonici delle province di Ravenna,
Ferrara, Forlì-Cesena e Rimini hanno
promosso con il Comune di Brisighella un progetto di valorizzazione della
cripta e degli ambienti sotterranei, realizzando un percorso di visita che
consentirà di ammirare questa parte così suggestiva e sconosciuta
dell’edificio.
La presenza di un’importante
via di comunicazione che da Faenza saliva a Firenze varcando l’Appennino, la
Faventina, racconta un passato fatto di uomini, scambi e mercanzie, di campi
fertili da coltivare e luoghi ameni in cui vivere. Gli scavi archeologici
effettuati sotto la chiesa hanno fornito informazioni sull’utilizzo di questa
zona prima che la pieve fosse costruita. In età romana questa era un’area
agricola collegata a una grande villa urbano-rustica posta all’VIII miglio
della Faventina. Qui in particolare c’erano i magazzini, documentati da 12
grandi dolia per lo stoccaggio dei prodotti agricoli, recipienti di ampia
portata che potevano contenere fino a 1500-2000 litri di olio o vino, ma anche
semi o cereali. L’occupazione del territorio in età romana è confermata da
elementi architettonici reimpiegati per la costruzione della pieve tra cui
epigrafi sepolcrali, capitelli di produzione orientale di III e IV secolo,
frammenti lapidei e fusti in granito grigio (uno di questi è un miliario di IV
secolo riutilizzato come colonna) e un capitello del I secolo a.C. riutilizzato
come acquasantiera.
È assai probabile che
questo insediamento rurale sia rimasto in vita dalla fine dell’epoca
repubblicana (I secolo a.C.) fino al V secolo d.C. come sembrano testimoniare
alcune tombe alla cappuccina rinvenute sotto il pavimento della chiesa, che
andarono ad occupare l’area della villa. Le sepolture alla cappuccina erano
modeste strutture per inumazione, realizzate con grandi tegole accostate in
modo da formare un tetto: utilizzate per tutta l’età romana, persistono fino
all’epoca medievale. Tra i materiali di età medievale e post-medievale, si
segnalano un frammento di transenna da finestra, una formella raffigurante un
cavaliere, il frammento di uno stemma in calcare raffigurante una torre su un
monte, una base troncopiramidale in pietra per croce astile e piccoli frammenti
di affreschi.
Lo svuotamento della
cripta ha portato al recupero di parte di un ambone, l’elemento da cui il
sacerdote o il diacono enunciava le letture durante la liturgia. Spesso di
dimensioni ridotte e poco elevato, vi si accedeva da due o tre gradini e poteva
ospitare una sola persona. La cripta della Pieve del Thò fungeva da oratorio
per le funzioni quotidiane del clero. Costruita utilizzando mattoni e laterizi
di recupero e blocchi di spungone, presentava in origine uno spazio suddiviso
da tre coppie di pilastrini o colonne (di cui sono visibili attualmente solo
alcune basi) che sorreggevano una copertura con volte a crociera. Illuminata da
tre monofore poste nell’abside, vi si accedeva dalla navata principale della
chiesa tramite una scala centrale sul cui lato è visibile un mattone di età
romana con incisa una tavola da gioco (tabula lusoria).
Oltre ai reperti
provenienti dagli scavi, all’interno della cripta sono esposti anche materiali
originariamente conservati all’interno della chiesa. Tra questi, l’urna o
piccolo sarcofago in marmo grigio che, secondo una targhetta marmorea oggi
perduta, conteneva le ceneri di S. Claro martire. Donata nel 1855 da papa Pio
IX a Girolamo Lega e poi ceduta alla pieve, nel 1908, dal nipote Claro Lega,
dopo i restauri del 1934 l’urna fu spostata in canonica e quindi, dal 1956,
trasferita nel luogo attuale per iniziativa del pievano Don Pio Lega, membro
della stessa famiglia e promotore degli scavi effettuati nella cripta negli
anni ‘50, come ricorda l’epigrafe incisa sul cippo che sostiene l’urna.
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